In
questi giorni si sente parlare spesso delle manifestazioni contro la
Copa do Mundo che stanno avendo luogo in Brasile fin dall'estate
scorsa. Qualcuno mi ha chiesto come mai non ne parlo, qualcun altro
più semplicemente cosa ne penso.
Penso
che la questione sia piuttosto complessa e che tagliare con
l'accetta, posizionandosi nettamente di qua o di là, sia troppo
semplicistico. Provo a spiegarmi con alcune premesse, una conclusione
e due post scriptum.
Premesse.
Quando nel 2007 il Brasile fu scelto dalla FIFA per ospitare la XX
edizione della Coppa del Mondo, la reazione generale nel paese (fatte
le debite eccezioni) fu di entusiasmo.
Molta
acqua è passata sotto i ponti da allora, ma non è che 7 anni fa si
pensasse che la manifestazione sarebbe stata organizzata a costo
zero. Semplicemente, si pensava – e in parte si pensa ancora –
che i benefici sarebbero stati superiori ai costi. Si pensava che
l'iniziativa privata avrebbe partecipato con maggiori investimenti, e
che allo Stato (quello nazionale e quello delle singole unità
federali) sarebbero toccate pochissime spese. Lo Stato e gli Stati,
invece, hanno investito moltissimo: negli stadi, che devono essere
all'altezza di una competizione internazionale, ma anche in
infrastrutture e in propaganda.
Altra
premessa. Mai, nella storia del Brasile indipendente (1822), si era
visto un avanzamento sociale così massiccio in così poco tempo. Dal
2002, anno della storica elezione di Lula, a oggi, alcune decine di
milioni di brasiliani hanno abbandonato lo stato di vergognosa
sotto-miseria e sono stati “promossi” a una più dignitosa
povertà. Certo, ci sono ancora svariati milioni di poverissimi e di
miserabili, ma ormai il cammino è tracciato. Al contempo, svariati
milioni di poveri sono stati “promossi” alla classe medio-bassa;
i loro figli non abbandonano più la scuola, anzi, alcuni di loro
hanno cominciato a iscriversi all'università. Certo, non alle
migliori università del paese, ma rispetto a nessuna laurea è
sempre meglio una laurea modesta.
Le
cose non sono molto cambiate per la classe media e per le classi più
elevate. Anzi, forse per la classe medio-alta c'è stato un leggero
peggioramento non tanto delle condizioni oggettive, quanto della
percezione delle proprie condizioni.
Faccio
un esempio per semplificare (sic). Il traffico è diventato
impossibile nella stragrande maggioranza delle capitali di stato
brasiliane. Perché? Perché, rispetto a 10 anni fa, c'è molta più
gente che si può permettere l'automobile. È ovvio che a quel punto
una città con due milioni di abitanti e tagliata da due fiumi, come
Recife, il cui traffico è da sempre condizionato dalla presenza di
ponti-imbuto, diventi in tali condizioni un girone infernale quando
ci si vuole spostare con qualsiasi mezzo di trasporto pubblico o
privato. Un delirio.
Questo
è, innegabilmente, un elemento negativo; ma se ci pensiamo bene
proviene da un elemento positivo, e cioè che anche a Recife, a
Maceió, a Rio, a Manaus, più cittadini hanno avuto accesso a un
reddito dignitoso e hanno potuto acquistare un mezzo di trasporto
proprio. Come noi negli anni 60.
Parallelamente all'incremento del
reddito, come dicevo, c'è stato un incremento dell'indice di
scolarità. Quasi tutti i bambini brasiliani di età compresa fra 7 e
14 anni frequentano la scuola dell'obbligo, mentre un numero sempre
maggiore di adolescenti e giovani frequentano le scuole superiori
(che in Brasile si chiamano “ensino médio”) e le università
(“ensino superior”). Qual è il primo effetto di un incremento
della scolarizzazione? L'incremento della consapevolezza. Non è che
oggi il Brasile stia peggio di ieri, anzi. Ma è cambiata
radicalmente la consapevolezza dei propri diritti. E allora, come si
fa ad accettare senza battere ciglio che vengano costruiti stadi con
standard europei, nei quali sono stati investiti miliardi, magari con
le seggioline retrattili, mentre nelle scuole mancano i banchi e gli
ospedali sono ancora insufficienti a rispondere all'ideale di
universalizzazione del sistema di salute pubblica?
È evidente che
alcuni movimenti di protesta sono giustificati ed è giusto che i
governi – quello federale e i singoli governi statali – ascoltino
le rimostranze e si impegnino a porre rimedio a queste iniquità.
Però,
da qui a desiderare che la coppa sia un'esperienza fallimentare ne
passa.
L'hashtag
#nãovaitercopa (“la coppa non ci sarà”), promosso da alcuni
movimenti, mi fa tanto pensare a quel tizio che si tagliò i
testicoli per far dispetto alla moglie.
Desiderare
che i turisti si trovino male o, peggio ancora, che siano vittime di
rapine e altre forme di violenza, desiderare il fallimento davanti al
mondo intero di un'esperienza che dovrebbe essere di gioia e di
festa, in nome di pur legittime rivendicazioni sociali, è secondo me
un autogol clamoroso.
Se
il popolo brasiliano non avesse veramente voluto la Coppa, si sarebbe espresso quando il paese propose la propria candidatura alla Confederazione
Sudamericana di Football, nel 2003; o quando nel 2006 la
Confederazione scartò Argentina e Colombia e scelse di candidare il
Brasile.
Oggi, quello che i brasiliani e le brasiliane dovrebbero desiderare, e adoperarsi affinché accada, è che tutto funzioni a meraviglia, che gli ospiti stranieri rimangano incantati dalle bellezze paesaggistiche, architettoniche, culturali, umane e sportive del paese, che il Brasile consolidi la propria reputazione internazionale di paese sviluppato, culturalmente brillante, dotato di un popolo ospitale, competente e creativo. Dimostrare che il Brasile non è un paese del “terzo mondo” ma una nazione che oggi è in grado di dare dei punti alla nostra Europa decadente: una disoccupazione inferiore al 5%, su una popolazione di 200 milioni di abitanti, dovrebbe farci pensare. Una produzione musicale, letteraria, accademica in crescita costante. Programmi pubblici per l'incentivo allo studio universitario e alla ricerca. Programmi di finanziamento pubblico per la formazione professionale. Un piano di edilizia popolare che sta permettendo a decine di milioni di famiglie di acquistare una casa con finanziamenti agevolatissimi, un po' come capitava da noi negli anni 50.
Oggi, quello che i brasiliani e le brasiliane dovrebbero desiderare, e adoperarsi affinché accada, è che tutto funzioni a meraviglia, che gli ospiti stranieri rimangano incantati dalle bellezze paesaggistiche, architettoniche, culturali, umane e sportive del paese, che il Brasile consolidi la propria reputazione internazionale di paese sviluppato, culturalmente brillante, dotato di un popolo ospitale, competente e creativo. Dimostrare che il Brasile non è un paese del “terzo mondo” ma una nazione che oggi è in grado di dare dei punti alla nostra Europa decadente: una disoccupazione inferiore al 5%, su una popolazione di 200 milioni di abitanti, dovrebbe farci pensare. Una produzione musicale, letteraria, accademica in crescita costante. Programmi pubblici per l'incentivo allo studio universitario e alla ricerca. Programmi di finanziamento pubblico per la formazione professionale. Un piano di edilizia popolare che sta permettendo a decine di milioni di famiglie di acquistare una casa con finanziamenti agevolatissimi, un po' come capitava da noi negli anni 50.
Ecco,
guardo il Brasile degli ultimi 12 anni e penso all'Italia che si
rialza dopo la dittatura e la guerra. Il Brasile di oggi è un po'
così, è meglio di così. E il mondo lo deve sapere e lo deve
vedere.
Ciò
non significa assolutamente che bisogna nascondere la polvere sotto
al tappeto, ma solo che questo è il momento di mostrare al mondo
perché il Brasile è destinato, come dice il mio amico Ziraldo, a
diventare la più grande potenza mondiale del XXI secolo (no, non la
Cina, il Brasile). Le lotte interne, le rivendicazioni sacrosante, le
proteste, devono continuare: ma non boicottando la coppa del mondo.
P.S.
1 – Il 2014 è anno elettorale. Dilma Rousseff è candidata alla
rielezione. Evidentemente il PT (Partido dos Trabalhadores) non è
immune da difetti, da mele marce, da critiche e da un amplissimo
margine di miglioramento; ma negare che questi 12 anni di governo
hanno portato il paese a un avanzamento senza precedenti significa
essere, semplicemente, in malafede. Certo, le cose non sono
migliorate per tutti; e non sono migliorate per tutti allo stesso
modo. Ma se qualcuno pensa veramente che un paese di dimensioni
continentali e una popolazione di duecento milioni di abitanti possa
essere girato come un calzino e portato alla perfezione in poco più
di due lustri, beh, forse avrebbe bisogno di recuperare un po' di
realismo. Per non parlare del fatto che dietro ad alcuni movimenti e
ad alcune campagne stampa no-Coppa ci sono molto probabilmente
avversari politici di Dilma, che in questo momento hanno tutto
l'interesse a screditare il governo del PT.
P.S. 2 – Aneddoto
personale. Nel mio primo anno in Brasile ho sofferto varie volte di
mal di fegato a causa di quella che, ai miei occhi, era
“disorganizzazione”. Ricordo in particolare una festa per i
ragazzi della Prima Comunione – torta e cocacola per bambini e
ragazzi che a casa loro una bibita gassata la vedevano molto
raramente, e per le loro famiglie – per organizzare la quale fu
chiesto il mio aiuto. Un'ora prima dell'inizio della Messa la torta
era ancora nel forno e mancava un sacco di roba. A quel punto persi
la pazienza, lasciai le chiavi dei locali ad alcuni animatori e me ne
andai, certa che saremmo usciti dalla Messa e arrivati al salone
della festa non avremmo trovato niente da mangiare. Non vi dico la
sorpresa di trovare il salone addobbato, la torta (ancora un po'
tiepida, vabbè) perfettamente decorata, i salatini, i piattini, i
bicchieri, le bibite, la musica. Un successo. Da quella volta decisi
che non avrei mai più aiutato a organizzare nessuna festa: tanto,
erano in grado di farlo benissimo da soli rimediando all'ultimo
momento cose che per me avrebbero richiesto giorni di pianificazione.
Ecco,
mi piace pensare che anche questa Coppa andrà così. Sono
brasiliani, ce la possono fare.